La morte è l’unica certezza. Paradossalmente, essa è anche ciò che più viene ignorato nella vita. La certezza della morte è accompagnata da una perpetua condizione di indeterminatezza nei suoi confronti: essa è l’unica cosa di cui non è possibile avere certezza.
L’intero cammino dell’esistenza si coniuga con essa, un’ombra costantemente incombente sopra ogni essere, che nonostante si sappia essere sempre là, non può essere prevista, né anticipata. L’unica cosa che si sa è che essa non può essere elusa e, che agisca dopo un istante o dopo anni, i suoi effetti saranno permanenti. Molto probabilmente è proprio questo il motivo per cui si sceglie di ignorare la sua presenza; in fondo finché c’è vita non c’è morte, e nel momento in cui giunge la morte cessa anche qualunque forma di preoccupazione.
È chiaro che un corretto approccio alla vita passa attraverso una corretta accettazione e comprensione delle dinamiche legate alla sua fine.
La morte è sì non controvertibile, eppure la vita di un uomo può continuare ad avere un impatto, anche dopo l’arrivo al termine del proprio cammino, se, nel percorrerlo, egli sia riuscito a lasciare dei segni tangibile. Per esempio, si tratta dei ricordi e delle memorie dei vivi.
Tuttavia, la morte resta sempre un tabù. Accettare che essa esista implica confrontarsi con il fatto che si muore. Significa accettare che si invecchierà e soprattutto significa accettare il fatto che il tempo che si ha a disposizione è limitato, che esiste una fine. Arriverà, dunque, il momento in cui si sarà costretti a voltarsi per vedere quanti semi si
è effettivamente riusciti a lasciare lungo la strada. Idealmente nessuno vorrebbe vivere con il dubbio.
In questo la morte è un problema, perché costringe l’uomo ad essere umano.
Avere consapevolezza della morte significa rendersi consapevoli del fatto che gli altri moriranno. L’intera vita spesso si basa sulla presenza di altri. L’uomo è un animale sociale, in fondo. La storia è impregnata di compromessi ai quali sono venuti gli esseri umani per poter soddisfare il costante bisogno dell’altro, per poter raggiungere un’armonia. Anche il debole equilibrio della quotidianità di una persona si basa sugli altri. Ammettere l’esistenza di un lutto implica il doversi adattare ad una violenta e permanente rottura di equilibrio, ad un cambiamento che non può essere evitato. Tutto ciò destabilizza l’essere umano il quale, trovandosi nell’incessante ed inappagabile tendenza ad un’armonia irraggiungibile, trova difficile venire a patti con una realtà così lontana dall’equilibrio tanto agognato. Se si ci ferma a riflettere, è possibile rendersene conto: tutta la società è costruita su una presunta ed illusoria immortalità. I malati ed i moribondi sono “ostracizzati”, “lasciati morire” negli ospedali e persi nei cimiteri. Questi ultimi sono diventati dei luoghi da scantonare, necessari solo per la risoluzione del lutto e, nell’immaginario comune, difficilmente depositari del ricordo e dell’ispirazione.
La visione foscoliana del “sepolcro come mezzo per il raggiungimento dell’immortalità dell’essere” è sempre più sbiadita. Le persone tendono a coprirsi gli occhi su questo aspetto, ed a concentrarsi su altri aspetti dell’esistenza pur di non pensarci: l’estetica, il consumismo fine a se stesso, i social network. Questi ultimi, in particolare, sono sempre più presenti nella vita delle persone, un po’ per scelta, un po’ perché è la società stessa ad inserirli sempre più nella vita degli uomini. In questo, la loro presenza non è più tanto diversa dalla costante presenza della morte.
In qualche modo, sarebbe necessaria una rivalutazione della morte. Si tratta del passo finale, da vivere con la giusta dignità, assieme alla propria famiglia e con il rispetto della società.
In fondo, è la consapevolezza dell’esistenza di una fine che spinge l’uomo a vivere.