L’illusione del possesso

Nel corso degli ultimi decenni abbiamo assistito a una trasformazione profonda del nostro rapporto con il possesso e con la proprietà. Un tempo la collezione di oggetti – dischi, libri, CD, DVD, giochi – costituiva il nostro patrimonio personale, oggi sempre più spesso ci limitiamo a sottoscrivere abbonamenti e a farci veicolare contenuti in streaming. Siamo entrati in quella che potremmo definire un’economia dell’accesso, fondata sul principio che nulla ci appartiene realmente, se non temporaneamente. Quali sono le radici e le implicazioni di questa tendenza? E se vi fossero analogie con il sistema feudale medievale ?

Il passaggio dalla proprietà all’accesso non è un fenomeno nuovo, ma ha trovato nella tecnologia digitale terreno fertile per espandersi a ritmi vertiginosi. In passato acquistavamo un album e ne eravamo i legittimi proprietari: potevamo prestartelo, rivenderlo, conservarlo su uno scaffale. Con le piattaforme di streaming, invece, paghiamo un canone mensile per ascoltare musica che, di fatto, non ci appartiene. Lo stesso vale per film, serie TV, ebook, software, videogiochi: tutto diventa fruizione temporanea. Il risultato è duplice: da un lato godiamo di un’offerta illimitata a costi relativamente bassi; dall’altro perdiamo la sensazione di possesso e, soprattutto, la certezza di disporre dei contenuti anche in futuro, in caso di interruzione dell’abbonamento o di cessazione del servizio da parte del provider.

Le grandi piattaforme digitali – Netflix, Spotify, Amazon, Apple, Google, Meta – detengono oggi il monopolio dell’accesso a quasi tutti i contenuti culturali, di intrattenimento e persino formativi. Queste aziende operano come veri e propri gatekeeper: decidono cosa offrirci, a quali condizioni e con quali algoritmi. La loro offerta è per definizione “in affitto”: non esiste un archivio privato in cui possiamo conservare i nostri beni digitali. Ciò crea una dipendenza strutturale: se cessasse il servizio o cambiassero i termini dell’abbonamento, perderemmo immediatamente l’accesso a ciò che avevamo possesso. Questa concentrazione del potere nelle mani di pochi attori privati ha implicazioni enormi sul piano economico e politico, alimentando dinamiche di dipendenza e vulnerabilità.

L’espressione “servi della gleba” evoca l’Europa medievale, quando i contadini erano legati alla terra di un signore feudale e ne coltivavano i campi in cambio di protezione e di un piccolo pezzo di terreno per il proprio sostentamento. Oggi, molti di noi sono analogamente legati alle piattaforme digitali: per mantenere il nostro appezzamento di terra digitale – il profilo social, il canale di comunicazione, il pubblico – dobbiamo produrre costantemente contenuti, aggiornamenti, like, commenti. Zuckerberg, come un signore feudale, ci concede l’uso di uno spazio digitale, ma richiede in cambio la nostra attività continua, dalle prime ore della giornata fino a notte fonda. Proprio come i contadini medievali, non siamo proprietari di quel suolo: ne abbiamo soltanto l’usufrutto subordinato ai termini imposti dal padrone.

In un’azienda tradizionale, il CEO rappresenta l’autorità suprema: è colui che decide strategie, investimenti, politiche interne. In questo senso, i vertici delle piattaforme digitali assumono i tratti di una nuova aristocrazia: non sono eletti, non rispondono a nessuna assemblea democratica, sono immuni a pressioni elettorali. La loro legittimità deriva esclusivamente dal potere economico accumulato e dalla capacità di innovare. Mark Zuckerberg, Tim Cook, Reed Hastings agiscono come sovrani di regni virtuali, dove la moneta di scambio non è oro ma dati personali e attenzioni degli utenti. Chiunque desideri partecipare a questi regni deve sottostare alle regole dettate dai nobili digitali, perdendo così una quota di libertà che veniva storicamente garantita dalla proprietà privata.

Le democrazie moderne sono strutturate su principi di rappresentanza, separazione dei poteri e diritti individuali. Le aziende, invece, operano secondo logiche gerarchiche in cui il potere è concentrato in cima alla piramide. Quando le piattaforme digitali diventano spazi pubblici di fatto – come lo spazio fisico di una piazza – il conflitto tra democrazia e oligarchia si fa tangibile. Se un cittadino digitale vede censurati i propri contenuti, sospeso l’account o de-indicizzati i propri servizi, non ha ricorso se non accettare le ragioni del “padrone” o abbandonare la piattaforma. In questo contesto, la cosiddetta “libertà di espressione” è ad elastico: si allunga e si contrae a seconda delle policy decise dai CEO-nobili.

La storia ci insegna che le strutture di potere tendono a ripetersi: l’oligarchia, il feudalesimo, l’assolutismo monarchico, persino i totalitarismi, sono tutte espressioni diverse di una costante tendenza umana a concentrare ricchezza e controllo. Dopo la Rivoluzione francese e il periodo illuminista, si pensava di aver piegato le vecchie strutture, di averle sostituite con una forma di potere cittadino e partecipato. Eppure, non appena si aprono spazi di innovazione – come quelli offerti dalla tecnologia digitale – emergono nuovi signori feudali, pronti a riprendere il controllo con strumenti tecnologici più subdoli, ma non meno efficaci. La “gomma” del potere si allunga e torna indietro: se non siamo vigili, rischiamo di scivolare in un nuovo medioevo digitale senza rendercene conto.

Molti dei giovani che oggi guidano startup e multinazionali digitali sono cresciuti in un contesto culturale che esalta l’innovazione tecnologica senza riflettere sulle implicazioni etiche e sociali. L’educazione incentrata sul “pensiero design” e sull’economia della condivisione ha spesso trascurato l’insegnamento dei fondamenti della cittadinanza democratica e della storia delle istituzioni. Così, chi diventa CEO a vent’anni porta con sé una visione utilitaristica delle relazioni umane: ogni interazione, ogni contenuto generato, viene convertito in dati e in profitto. Mancano, in molti casi, solide basi di etica pubblica e di comprensione del ruolo della proprietà e del diritto. Ne deriva un rafforzamento dei meccanismi di servitù digitale, perché i nuovi “nobili” non percepiscono il pericolo di un edificio sociale sganciato dai valori democratici.

Non tutto è perduto: la crescente consapevolezza di come funzionano oggi le dinamiche del potere digitale può innescare vere e proprie forme di resistenza e di sperimentazione di nuovi modelli. In primo luogo, il movimento del software libero e della cultura open source, con esempi paradigmatici come Linux e Wikipedia, ha dimostrato che sistemi di produzione collaborativi e orizzontali non solo sono sostenibili, ma permettono di ridurre drasticamente la dipendenza dalle grandi aziende tecnologiche. Allo stesso modo, le tecnologie basate su blockchain offrono la possibilità di certificare in modo trasparente e immutabile la proprietà di asset digitali – basti pensare agli NFT – restituendo agli utenti un vero senso di possesso. Sul versante economico e sociale, stanno nascendo cooperative digitali e piattaforme come Fairbnb, che ridistribuiscono in modo equo i ricavi fra i creatori, opponendosi alla logica estrattiva delle grandi corporation. Infine, le policy dell’Unione Europea – dal GDPR al Digital Markets Act – spingono per un riequilibrio dei rapporti fra piattaforme e cittadini, imponendo obblighi di interoperabilità, trasparenza e tutela dei diritti individuali. Insieme, queste esperienze delineano un’alternativa concreta alla servitù digitale, dimostrando che è possibile costruire un ecosistema tecnologico più giusto e partecipato.

Per difendere la democrazia nell’era digitale è indispensabile adottare strumenti e pratiche inediti, in grado di rispondere alle sfide del contesto virtuale. Innanzitutto bisogna favorire una partecipazione digitale inclusiva, promuovendo piattaforme civiche pubbliche che permettano ai cittadini di deliberare con trasparenza e efficacia. Parallelamente, è fondamentale introdurre l’educazione critico-digitale in tutte le scuole, in modo che i giovani imparino fin da subito a riconoscere il funzionamento degli algoritmi, i meccanismi di monetizzazione dei dati e le dinamiche di potere che si celano dietro le interazioni online. A questo, va aggiunto un controllo pubblico sul web attraverso agenzie indipendenti di vigilanza, incaricate di monitorare le politiche delle grandi piattaforme, garantire il pluralismo delle opinioni e prevenire abusi. Infine, occorre sostenere l’innovazione etica, incentivando startup e imprese a dotarsi di codici deontologici vincolanti che orientino lo sviluppo tecnologico al servizio del bene comune, anziché esclusivamente al profitto. Solo così la democrazia potrà rafforzarsi e prosperare anche nel regno digitale.

Stiamo vivendo un passaggio epocale: da una società fondata sulla proprietà individuale dei beni si sta profilando un modello in cui l’accesso sembra prevalere su ogni forma di possesso. Se da un lato questo porta vantaggi in termini di efficienza, sostenibilità e flessibilità, dall’altro comporta il rischio di ricadere in un nuovo feudalesimo digitale, dove pochi “nobili” gestiscono il potere e la maggioranza degli utenti diventa “servo della gleba” di una piattaforma. La storia ci ricorda che le strutture di potere non scompaiono semplicemente per un colpo di spugna: se non restiamo vigili, la “gomma” tornerà indietro, e rischieremo di perdere le conquiste democratiche che sono frutto di secoli di lotte. La sfida del nostro tempo è dunque duplice: difendere il diritto alla proprietà digitale autentica e reinventare le istituzioni democratiche per l’era di Internet. Solo così potremo evitare di ritrovarci, un giorno, a vivere in un Medioevo 2.0 senza saperlo, convinti di essere liberi perché non ci fanno portare il giogo sul dorso, mentre la nostra libertà si erode silenziosamente, bit dopo bit.


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